21,097 km.

1533 metri di dislivello positivo.

Il passo dello Stelvio.

È impossibile dire cosa sia stata questa gara, unica nel suo genere: non una classica mezza, perché tutta in salita (e che salita!), non un trail, perché non vi è sterrato, ma solo asfalto.

Non esistono né parole né entusiasmo, solo fatica, costanza e perseveranza.

Già, perché la Re Stelvio Mapei la si inizia ad affrontare mesi prima, con tabelle, chilometri e dislivelli alla mano.

E anche l’allenamento, il più scrupoloso possibile, come noto, a volte non basta… perché quando la testa si allea con tutti i dolorini del nostro corpo, improvvisamente cala il blackout, tutto diventa insuperabile, i chilometri eterni e ogni sforzo inutile.

Per me è stato proprio così.

Gli ultimi 4 km, gli ultimi tornanti, interminabili, le lacrime agli occhi, nausea e capogiri dovuti all’altitudine (si passa, infatti, da 1225 slm a 2758 slm).  

La frustrazione, tanta, di non aver centrato l’obiettivo prefissato.

Eppure…

… eppure è bastata una mano tesa all’ultimo tornante per farmi piangere di gioia.

Perché, nonostante tutto, in cima al Passo Stelvio ci sono arrivata, con le mie gambe.

Perché ho capito che la prossima volta (perché ci sarà, eccome se ci sarà) affronterò lo Stelvio con il rispetto che merita, a testa bassa e con maggior umiltà.

Perché quella mano, tesa e pronta a sostenermi, voglio la prossima volta stringerla correndo a un passo uguale.

Ah, dimenticavo, in tutto questo sono arrivata quinta di categoria e la medaglia è la più brutta mai vista, ma di certo la più sofferta!